A Lampedusa, prima che la crisi degenerasse
Partii una mattina, nel mese di maggio, per andare a Lampedusa. Decisi una visita informale per vedere con i miei occhi ed ascoltare con le mie orecchie quanto stava accadendo.
Mi sembrava impossibile che l’Italia non riuscisse ad accogliere quel numero di tunisini, che dopo un anno secondo le cifre ufficiali del Ministero, è di 50.000 (compresi i profughi dalla Libia).
All’aeroporto vennero ad attendermi i responsabili del circolo PD di Lampedusa, molto attivo nell’accoglienza e che lavorava con le associazioni ed i gruppi di volontariato sul territorio.
Durante il tragitto in macchina mi aggiornavano di quanto era successo.
I giovani tunisini che erano venuti in Italia come transito verso gli altri paesi europei per cercare lavoro erano ragazzi miti, perbene che chiedevano aiuto alla popolazione.
E la popolazione di Lampedusa gliel’aveva data.
I lampedusani avevano accolto quei giovani come fossero parte della loro famiglia.
Anche perché si vergognavano delle condizioni in cui li aveva abbandonati lo Stato e della totale indifferenza del governo.
Infatti, erano lì da giorni e giorni, rimanevano sul porto, senza essere identificati.
I racconti erano commoventi: i lampedusani offrivano loro cibo, coperte, ma anche sigarette giochi in comune per allentare la tensione.
Ma con il trascorrere del tempo in entrambe le parti cresceva l’indignazione e il disagio per le condizioni di abbandono in cui erano lasciati.
Lampedusa è un luogo di transito. Il Centro di accoglienza che era diventato una eccellenza in Italia ed Europa funzionava come prima accoglienza ed identificazione ma non di permanenza delle persone. Altrimenti, in breve tempo l’isola sarebbe scoppiata.
Con la macchina attraversai la città e arrivai al Porto. Lungo la strada incontrammo frotte di giovani che camminavano per l’Isola.
Era impressionante vedere questa marea di giovani che camminavano veloci, senza meta, alla ricerca di qualcosa che non sapevano. Mi colpì la velocità del passo, la determinazione negli sguardi ma anche la grande tristezza degli occhi. Camminavano in una terra bellissima, ma attorno ad essa c’era solo il mare. Bellissimo, ma nemico perché quello che volevano quei giovani era attraversarlo ma non sapevano come.
Arrivammo al Porto. Immagini di desolazione umana che non potrò dimenticare e che ho denunciato ripetutamente nell’Aula parlamentare.
In uno spiazzo assolato migliaia di persone stipate, in piedi. Per dormire potevano contare sulle coperte che portavano loro i lampedusani, a partire da Don Stefano, dalla chiesa e dalla Caritas che per tutta la notte camminavano tra quei disperati per dare loro un po’ di conforto e per evitare che si accendesse la scintilla dello scontro.
La presenza dello Stato era visibile in 3 bagni chimici, una tenda della Croce Rossa per le emergenze sanitarie, la presenza (ammirevole) dei poliziotti esposti alla esplosione della rabbia, e poi sacchetti gettati all’ora di pranzo e cena contenente un panino, un po’ di riso ed una bottiglia di acqua minerale.
Visitai il Centro di identificazione, anche esso stipato, ed i centri dia accoglienza dei minori.
I lampedusani si erano davvero sostituiti allo Stato nella gara di solidarietà ma anche per garantire la sicurezza.
All’ora di pranzo raggiunsi la Caritas, Don Stefano, c’era anche Oliviero Forti. Mi raccontarono della solidarietà della gente ma di quanto fosse ormai diventata insostenibile la situazione, come non fosse più possibile tenere stipate migliaia di persone su quello spiazzo. Com’era dura la notte perché per coricarsi e dormire un po’, lo spazio non bastava, c’era bisogno di almeno una coperta, l’aria cominciava a diventare fetida per la puzza.
Potevano scatenarsi conflitti duri. Fino a quando ce l’avrebbe fatta la gente, il volontariato, la chiesa? Bisognava subito identificare e portare via quelle persone.
L’Italia aveva conosciuto emergenze molto più consistenti e maggiori che non 20.000 tunisini ma il governo italiano li ignorava, volutamente, deliberatamente.
Aveva predisposto un piano di accoglienza di ipotetici 50.000 profughi che sarebbero dovuti arrivare dalla Libia, ma non faceva nulla per i tunisini che erano lì, perché erano clandestini e bisognava esibire il pugno di ferro.
Il messaggio di Don Stefano fu chiaro: i lampedusani sono stati meravigliosi, hanno insegnato all’Italia che cos’è l’accoglienza e la dignità umana, ma ora non ce la fanno più. I tunisini che sono sul porto vanno identificati e lasciati raggiungere le loro famiglie, oppure accolti qui da noi su tutto il territorio nazionale.
Nel pomeriggio incontrai altre associazioni di volontariato, e poi andai in comune a salutare il sindaco, i consiglieri comunali e lì assistetti ad una discussione concitata su come proseguire la solidarietà, che però era diventata insostenibile e su come farsi sentire dallo Stato.
Le opinioni tra loro divergevano ed io non ero in grado di dare un contributo se non prendermi l’impegno di riferire in Parlamento quanto avevo visto ed ascoltato, protestare con il governo e proporre delle soluzioni
Così feci. La soluzione che proponemmo, un permesso umanitario temporaneo previsto dalla legge in vigore e sperimentato dal governo D’Alema durante il dramma dei Balcani, aveva funzionato allora, poteva funzionare ora.
Questa volta il governo ha accettato un suggerimento dall’opposizione ed ha applicato ai tunisini il permesso umanitario temporaneo, pur tra mille polemiche e contraddizioni e facendosi anche rimproverare dall’Europa.
Quel pomeriggio mi ha insegnato tante cose soprattutto quanto è dura in determinate circostanze la pratica della solidarietà ma quanto essa sia ineludibile ed insostituibile.
Per garantire la dignità umana.
Livia Turco
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