La macabra retorica salviniana contro gli immigrati sta saldando ceti sociali e culture diverse attorno ad una idea di società. La società del “ guscio” per usare una espressione secondo me efficace di Richard Sennet. Il Guscio protettivo non vuole gli immigrati, difende il territorio in cui vive, la sua economia ed identità culturale. E’ popolata da individui che vivono in solitudine , perché soffrono la rottura dei legami sociali e vivono in condizioni di fragilità, soffrono per mancanza di reddito e di certezze nella propria vita; ma è popolata anche da individui soli che esaltano la cultura individualista del fare da sé e del pensare solo a se’ nel condurre l’azienda, nella gestione della sua partita Iva, nella più generale partita della vita. Nel “guscio” troviamo la persona sola che cerca protezione alla sua fragilità e la persona forte, individualista che vive le altre persone ed i legami sociali come un impaccio al suo essere competitivo, chiede di essere lasciato libero nel suo egoismo, di non dovere nulla a nessuno, di sentirsi sicuro di non correre il rischio di vedere il suo territorio minacciato dall’altro. Cosa tiene insieme nello stesso “ guscio” l’individuo solo e fragile e l’individuo forte, egoista e competitivo? La domanda di protezione sociale ed economica, di sicurezza, di identità territoriale, di difesa del proprio territorio. La diseguaglianza sociale e la paura degli immigrati sono i collanti più forti nell’esprimere questa inedita domanda di protezione. Anche se l’ingrediente culturale dell’individualismo , l’esaltazione egoistica del fare da sè, la riduzione della persona umana a consumatore, l’esaltazione edonistica del puro apparire viene da lontano, dalle politiche liberiste ed in Italia dal Berlusconismo.
Ciò che colpisce in modo particolare guardando alla società italiana ed al consenso del vicepremier Matteo Salvini, con la grave e patetica subalternità del partito dei Cinque Stelle, è la constatazione di quanto sia profondo, radicato e trasversale il rifiuto degli immigrati. In un paese che nel corso della sua storia ha saputo far fronte ad emergenze umanitarie ripetute con spirito di accoglienza e solidarietà al di là di chi ci governava, come è potuto sedimentarsi questo stereotipo dell’invasione e questo sentimento del rancore? Perché anche nell’animo di tante persone di sinistra si è radicato il “mandiamoli a casa loro”? Nel rifiuto degli immigrati contano la crisi economica, il conflitto tra poveri , i problemi irrisolti del degrado urbano, le condizioni di insicurezza, il sentirsi abbandonati dall’Europa. Ma c’è qualcosa di più profondo se il valore della solidarietà e dell’accoglienza si è smarrito e se non si riesce dopo trent’anni di immigrazione e dopo che l’Italia è diventata un paese con una componente stabile di popolazione immigrata che, in grande parte, grazie alle proprie forze, si è integrata, a liberarsi dallo stereotipo dell’immigrato usurpatore.
Qualcosa che ci chiama in causa come sinistra nel modo con cui abbiamo letto ed interpretato il fenomeno dell’immigrazione , nel modo con cui lo abbiamo governato. Sintetizzo così la mia analisi: abbiamo fatto delle buone politiche nei governi nazionali e locali ma non abbiamo percepito che nel governo dell’immigrazione conta molto la dimensione simbolica, l’immaginario, il sentimento. Le nostre parole sono state solidarietà, accoglienza, l’immigrato risorsa che fa i lavori che gli italiani non fanno più e che salva le nostre pensioni. Raccontiamo questo immigrato risorsa con le aride cifre dei dati Inps non con i volti e le storie vere delle persone in carne ed ossa. Non siamo riusciti a far vedere gli immigrati reali nella loro positività.
E’ accaduto solo nella campagna che abbiamo fatto “ L’Italia sono anch’io”(2012-2013)con i ragazzi delle seconde generazioni per il diritto alla cittadinanza. Ricordo bene quella campagna in cui fummo protagonisti in tutta Italia con il Forum Pd sull’immigrazione, insieme con la rete dei Comuni e delle Associazioni con lo slogan “ Chi nasce e cresce in Italia è italiano”. In quella occasione quei volti fecero breccia nel cuore e nell’immaginario dei cittadini italiani, ruppero lo stereotipo fino ad allora consolidato dell’immigrato o vittima da aiutare o usurpatore da cacciare. L’immigrato diventa finalmente cittadino come noi con diritti e doveri. In quel caso, difronte a quei volti che risultavano normali e familiari (è l’amico di mio figlio!!)emerse nella mente e nel cuore degli italiani una nuova immagine dell’immigrato accompagnato da un sentimento di empatia. Non caso quella campagna trovò ampio consenso nella società. La battaglia per lo ius soli non fu solo il perseguimento di una politica specifica che superava una grave discriminazione esistente nel nostro ordinamento verso le seconde generazioni di immigrati/e ma lo strumento che aveva veicolato nella società un nuovo immaginario e fatto circolare un nuovo sentimento verso gli immigrati. Questo nuovo sentimento andava sostenuto con determinazione proseguendo nella società e nelle istituzioni la battaglia perché quei ragazzi fossero riconosciuti italiani. La questione è che noi sinistra non abbiamo mai preso di petto sul piano della elaborazione culturale, del dibattito pubblico e della costruzione di una narrazione il tema: “come stiamo insieme? cosa facciamo insieme? Come costruiamo comunità, cittadinanza, convivenza?”. Abbiamo costruito delle buone politiche di convivenza nazionali e locali ma esse non hanno parlato, non hanno prodotto immagini, simboli, non hanno raccontato una cultura, un modo di essere diverso della nostra società e delle relazioni tra di noi.
Abbiamo consentito che nel dibattito pubblico imperversasse un immigrato astratto. Abbiamo il dovere oggi di contrastare in modo efficace la politica razzista del governo cercando di parlare al cuore delle persone che dicono no agli immigrati intessendo con loro un dialogo che dovrà essere lungo, paziente e costante. Ma fermo. Che aiuti a riscoprire il senso della solidarietà umana convincendo che senza di essa saremo tutti travolti e aiutando con la forza dell’esempio a scoprire l’umanità dell’altro. Conta dunque la relazione umana, il legame sociale, lo sforzo di fare incontrare nella quotidianità persone vere che vivono insieme gli stessi problemi: il lavoro che manca, la povertà, il degrado urbano. Dobbiamo dimostrare che abbiamo comuni problemi italiani ed immigrati e che insieme possiamo risolverli e costruire una società umana e sicura per tutti e tutte.
Dobbiamo far sentire vincente l’idea che “Insieme si può”. Lo dobbiamo e possiamo fare nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri luoghi di lavoro.
Lo dobbiamo fare da cittadini . Lo deve fare la sinistra e la politica. Se vuole rinascere la sinistra deve partire da qui, dalla costruzione del legame umano e sociale nel luogo del rancore e del conflitto vero l’altro per costruire conoscenza reciproca, riconoscimento reciproco, guardarsi e scoprirsi comuni cittadini di un comune territorio, di una comune patria e nazione. La sinistra deve dare volto , voce e forza all’Italia della Convivenza che c’è , che agisce come si è visto a Milano a Roma, a Napoli, a Lampedusa nei porti e nei centri di accoglienza, tra le famiglie che accolgono i giovani cui è stata rifiutata la protezione umanitaria e da persone stanno diventando scarti sociali e soggetti illegali. Costruiti ad arte dal cinismo di Salvini per poter alimentare il suo immaginario e la sua retorica dell’immigrato brutto e cattivo. La sinistra deve esserci nei luoghi in cui colpevolmente non c’è stata, accanto a Soumalaya Sacho ammazzato mentre era sfruttato nelle campagne del Sud.
A sostegno della lotta dei suoi compagni che insegnano a tutti noi il valore della dignità umana come sta facendo il sindacalista e lavoratore Aboubakar Soumahoro. Come trent’anni fa nell’ agosto del 1989 fu accanto a Jerry Masloo, senegalese che raccoglieva pomodori, ucciso da un gruppo di balordi locali. Bisogna costruire una grande Conferenza sull’Immigrazione e la Convivenza, bisogna farlo ora, subito, chiamando a raccolta questa Italia della convivenza, coinvolgendo anche forze politiche europee e società civile europea. Ma anche facendo un viaggio nei luoghi del rancore per ascoltare, per capire, per risolvere i problemi Bisogna costruire una Piattaforma Europea; bisogna modificare radicalmente la legislazione italiana mettendo al centro misure che rendano praticabile e conveniente l’ingresso regolare ed affrontare finalmente il tema : come costruiamo il motto dell’Unione Europa dell’Unità nella Diversità?
Come facciamo diventare questo motto una pratica di costruzione della convivenza ed un idea di società della convivenza? Per combattere la paura e costruire un sentimento di sicurezza è da qui che bisogna partire. Il governo efficace dell’immigrazione è misurabile dalla qualità della convivenza tra europei ed immigrati che si realizza nei singoli paesi dell’Unione. Lo confermano realtà come la Germania, la Danimarca, il Belgio, la Svezia che hanno saputo non solo promuovere politiche di integrazione, sostenute da un dibattito pubblico ma le hanno innovate superando l’approccio assimilazionista e multiculturalista e cercando di rendere concreta l’idea forza della “interazione”. In Italia non c’è mai stato un dibattito pubblico su questi temi salvo il breve periodo dei governo dell’Ulivo con l’approvazione della legge 40/98 che prevedeva una Commissione Nazionale per le politiche di integrazione, risorse pubbliche del Fondo Nazionale per l’integrazione ed una legislazione contenente diritti sociali e doveri connessi alla dignità della persona ed alla permanenza sul territorio. La Bossi Fini ha abrogato in gran parte quelle norme, ma molte sono state successivamente ripristinate da sentenze della Corte Costituzionale.
Al di là delle norme si è però sedimentata nel nostro paese, attraverso un originale welfare locale e comunitario, una Via Italiana alla Convivenza, ci sono nei comuni e nelle città , nelle scuole, nelle fabbriche, nei reparti di maternità, nei servizi sanitari e sociali tante esperienze concrete che parlano di successi della convivenza. Conoscerle, interrogarle, imparare da queste esperienze attraverso un dibattito pubblico è, secondo me, il modo efficace per contrastare la retorica dell’immigrato usurpatore e fare breccia nel cuore degli italiani. Perché entra in gioco la forza dell’esempio e della esperienza direttamente vissuta.
Livia Turco
Da Il Foglio dell’11 luglio 2019