di Livia Turco, da l’Unità del 15 marzo 2013
Condivido il giudizio di Alfredo Reichlin nel suo articolo comparso su questo giornale martedì 12 quando definisce la fase che stiamo vivendo come una crisi complessiva di rappresentanza e non solo dei vecchi partiti.
Dovuta prima di tutto alla perdita di credibilità e autorevolezza della politica per non essere stata efficace nel risolvere i problemi, ma anche a quei fenomeni di disgregazione sociale che “stanno creando milioni di individui soli e separati tra di loro: senza più vecchi legami e del vecchio immaginario collettivo, senza un loro campo dove stare”.
Sono squadernati di fronte a noi e ne discutiamo ogni giorno gli effetti della crisi con i fenomeni di impoverimento, di mancanza di lavoro e reddito.
Ma dobbiamo anche cogliere l’impoverimento delle relazioni umane, “l’effetto tartaruga”, la chiusura in se stessi che la paura produce, la frantumazione delle relazioni umane, le situazioni di fragilità e solitudine.
Dobbiamo evitare nella lettura dei processi una sorta di gerarchizzazione del disagio sociale per cui contano e si vedono solo gli aspetti connessi al reddito e al lavoro e non i problemi drammatici che vivono le persone portatrici di fragilità (persone disabili, non autosufficienti, affetti da disagio mentale) che sono sempre più confinate nel recinto delle loro famiglie per via della pesante riduzione dei servizi sociali sanitari e sono sorrette dalle cure dei soli familiari e dei volontari. Dobbiamo inoltre focalizzare il nesso che intercorre tra impoverimento economico, impoverimento delle relazioni umane e la partecipazione politica; tra diseguaglianze e democrazia per cui chi meno ha e meno sa è meno interessato alla partecipazione politica. Bisogna dunque ricostruire dalle fondamenta la rappresentanza politica, restituirle un “senso” oltre che efficacia. Sono urgenti quelle riforme delle regole che il centro destra ci ha impedito di realizzare, è urgente la pratica della sobrietà e della trasparenza. Ma è necessario qualcosa di più, è necessario ricostruire un legame tra la politica, le istituzioni e la vita delle persone. Insomma, ci vuole efficacia nel risolvere i problemi ma anche capacità di coinvolgimento nella costruzione delle relazioni umane.
È per queste ragioni di fondo che ho condiviso la proposta politica del segretario Bersani: la responsabilità come cambiamento e la sua insistenza sugli 8 punti, sulla centralità programmatica. Che non è solo l’indicazione delle cose da fare subito per cambiare, delle possibilità e del dovere del cambiamento ma anche l’indicazione di una pratica politica che si gioca tutto sul merito dei problemi, che fonda la sua credibilità su di essa, che rompe la profonda e vera patologia del nostro sistema politico, del dibattito pubblico e mediatico, per cui il merito dei problemi resta sempre sullo sfondo è ridotto ad allusione e non è assunto come fondamento delle necessarie alleanze politiche. È importante insistere in questi giorni sulla responsabilità come cambiamento, sulla centralità sulle cose da fare rivolgendosi ancora più nettamente a tutte le forze politiche, comprese quelle moderate e a tutti i cittadini italiani. Per rendere chiaro che tale proposta non costituisce un espediente tattico per ricercare una maggioranza che non c’è e non è solo un discorso a Grillo e al suo elettorato ma un messaggio forte a tutti i concittadini perché concorrano a costruire il cambiamento necessario e dunque una prospettiva di governo. Per arrivare a dare un governo al Paese senza il quale il nostro Paese rischia molto.
C’è bisogno di una riscossa civica e mi piace pensare che ne siano protagonisti in primo luogo i giovani e le donne. Praticando la sobrietà della politica ma anche facendo la fatica della “condivisione” dei problemi delle persone, facendo vivere la bellezza di quel “io mi prendo cura”.
Non contano solo la rapidità dei messaggi, la trasparenza, la democrazia della rete. C’è bisogno di quella attitudine più impegnativa che è la costruzione delle relazioni umane, dei legami comunitari. Che è poi la sostanza di una politica popolare. Essa comporta la fatica di “frequentare i luoghi” della vita quotidiana e non solo animare le piazze. Andare a scavare dove sono il disagio e la sofferenza che quasi sempre si nascondono, nelle famiglie, ai bordi delle strade nelle piazze più buie, negli scantinati del lavoro nero, nelle vicinanze delle scuole, nei quartieri degradati. Anche perché nei luoghi del disagio c’è la costruzione di strategie per uscirne come mi hanno insegnato nel corso di tanti anni i miei amici “militanti del sociale”. Nei “luoghi” ci sono i problemi ma ci sono anche le strategie per risolverle e per costruire una buona politica. D’altra parte, lo sappiamo bene, alleanze politiche e politica popolare sono le due facce della buona politica.