La sanità non funziona? La ricetta di Berlusconi è semplice: federalismo fiscale e privatizzazione degli ospedali. La nuova uscita del presidente del Consiglio va presa sul serio e analizzata bene. A partire da quella panacea di tutti i mali che rischia di diventare il federalismo fiscale. Berlusconi dice che solo dando autonomia e responsabilità tributaria alle Regioni i conti pubblici potranno essere messi a posto. Peccato che per la sanità il progetto Calderoli sia al momento inapplicabile. Il perché è presto detto. Il ddl prevede che il finanziamento pubblico sia erogato sulla base di costi standard ottimali secondo determinati indicatori. In altre parole finanziare solo il “giusto” e nulla di più per ogni prestazione o servizio. Un obiettivo ovviamente condivisibile e sul quale occorre lavorare, sapendo però che ci vorrà tempo e grande attenzione e questo perché, purtroppo, il nostro sistema sanitario non è attualmente in grado di effettuare la standardizzazione dei suoi costi. E a dirlo non sono l’opposizione o qualche disfattista ma l’Istat, l’Isae e la Ragioneria generale dello Stato che, nel corso di una recente audizione in Parlamento, hanno fatto presente che i data base per poter calcolare i costi standard sono tutti da costruire. “Di conseguenza - come ha giustamente notato un esperto di finanza come il professor Paladini dell’Università La Sapienza di Roma - non si hanno neppure informazioni attendibili su quali siano i rapporti tra la spesa sanitaria storica e quella calcolata sui costi standard per ciascuna regione”.
E allora di che parliamo? Di qualcosa che non c’è e che non ci sarà a breve ma che si sbandiera come ricetta risolutiva già pronta all’uso per colpire sprechi e inefficienze. Solo fumo negli occhi, quindi, anche per coprire la realtà di oggi, fatta di tagli ai finanziamenti, con una riduzione del fondo sanitario di ben 6,5 miliardi in tre anni decisi dalla manovra di luglio, e alle prestazioni, con il ridimensionamento dei livelli essenziali di assistenza già annunciato dal governo.
E veniamo alla seconda ricetta, quella della privatizzazione degli ospedali. Anche qui occorre ragionare con calma senza fermarsi alle pur giuste dichiarazioni di principio sul primato del pubblico in un ambito delicato come quello della tutela della salute. Il tema del rapporto pubblico-privato in sanità non è infatti nuovo. Sono anni che se ne dibatte senza essere riusciti a compiere effettivi passi avanti. Come ho già avuto modo di dire al ministro Sacconi, che con il suo Libro Verde sul Welfare ha aperto un’autostrada ideologica per favorire l’ingresso di forti privatizzazioni nel sistema di protezione sociale italiano, ribadisco anche oggi al presidente del Consiglio che non siamo certo noi Democratici a paventare l’efficienza e la qualità del privato in sanità (quando ci siano realmente).
Il punto è un altro. La sanità è un settore troppo complesso e delicato per pensare di risolverne i problemi con qualche parolina magica. Privatizzare gli ospedali. Ma cosa vuol dire? Si sta forse pensando a tante “cordatine” alle quali svendere un patrimonio di competenze professionali e tecnologiche fatto di centinaia di ospedali e di decine di migliaia di professionisti, tenendoci i debiti e dando ai privati i profitti? Spero proprio di no. E allora ragioniamo su come far sì che i nostri ospedali tornino ad essere quello che dovrebbero essere e cioè dei luoghi per la cura delle patologie acute, dove si fa ricerca e formazione, ben integrati nel sistema sanitario locale e in costante collegamento con i servizi medici territoriali.
Non esistono ricette uniche o modelli validi per ogni luogo o realtà. Ma è certo che su alcune linee generali c’è una radicata condivisione. Prima di tutto sulla loro dimensione. Oggi non ha più senso avere tanti piccoli ospedali, occorre che essi siano riconvertiti offrendo ai cittadini di quelle località valide alternative e la certezza di avere comunque facile accesso ad un ospedale rinnovato e moderno.
Nei due anni scarsi di governo del centro sinistra abbiamo fatto molto in questa direzione. A cominciare dal riammodernamento strutturale e tecnologico della nostra rete sanitaria. Abbiamo infatti siglato ben 13 accordi di programma con 11 regioni italiane, per un totale di 1 miliardo e 900 milioni di euro stanziati per la realizzazione di 335 interventi in edilizia e tecnologie sanitarie. Grazie a questi accordi si stanno costruendo 11 nuovi ospedali, se ne amplieranno altri 25 e se ne ristruttureranno altri 194. Parallelamente si è investito sul territorio, avviando oltre 80 interventi di riassetto dei servizi di sanità extraospedaliera nella logica della rete e della risposta ai nuovi bisogni assistenziali.
Ma non ci siamo fermati qui. Con le nostre due leggi finanziarie abbiamo infatti stanziato altri 5,5 miliardi di euro ai quali si aggiungono ulteriori 3 miliardi di euro dei fondi strutturali europei destinati ai servizi sanitari del mezzogiorno. Insomma abbiamo messo sul piatto un totale di poco meno di 10,5 miliardi di euro di investimenti, con l’obiettivo di ridisegnare completamente il contesto, la struttura e la stessa organizzazione operativa della sanità italiana.
E’ stato un grande lavoro di cui si è parlato purtroppo poco ma che consentirà di dare agli italiani una rete sanitaria pubblica completamente rinnovata nel giro di pochi anni. Il presidente Berlusconi e i suoi ministri, invece di parlare di project financing con il privato senza sapere che sono già in atto, sarebbe bene si occupassero di gestire gli investimenti che gli abbiamo lasciato in eredità, monitorando la realizzazione delle opere per tenere sotto controllo tempi e costi di attuazione.
E se il privato vuole portare il proprio contributo a questa grande opera di ammodernamento del Paese, ben venga se sarà capace di promuovere nuove opportunità e nuove possibilità di tutela e di servizi.
Ma stiamo attenti alle sirene di un privato di per sé efficiente e migliore. Rischieremo di svendere un patrimonio straordinario, che appartiene a tutti gli italiani, per un piatto di lenticchie.
Livia Turco
(articolo pubblicato su L’Unità del 4 ottobre 2008)